31/12/9999, la pena di morte “bianca”

Perché su alcuni certificati di detenzione c’è scritto “fine pena: 31/12/9999”? Cosa significa? Significa che chi ha quella data stampata sul proprio documento, in pratica, uscirà dal carcere solo dentro a una bara. Morirà tra quattro mura. Da solo. Senza i suoi affetti più cari. Una sorte alla quale sono condannati i 1259 detenuti ostativi che vivono nelle carceri italiane secondo il report del Garante Nazionale delle persone private della libertà. Circa il 70% degli ergastolani totali. Ma chi sono i detenuti ostativi? E che differenza c’è tra loro e gli ergastolani? Per rispondere bisogna fare un passo indietro di 30 anni.

La nascita dell’ergastolo ostativo

Era il 1992, l’anno delle stragi di mafia. Un anno che sconvolse l’Italia e spinse lo Stato a introdurre l’articolo 4-bis nell’ordinamento penitenziario. Nacque così l’ergastolo ostativo. Un secondo tipo di ergastolo, ancora più duro rispetto a quello ordinario, a cui sono condannate le persone che commettono reati particolarmente gravi come l’associazione di tipo mafioso, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al traffico di droga.

31/12/9999, la pena di morte "bianca"

I due tipi di ergastolo

In Italia, dunque, esistono due tipi di ergastolo: quello ordinario e quello ostativo. Essendo vietata la pena di morte, si tratta delle massime pene previste dal nostro ordinamento. Pene perpetue, che durano cioè tutta la vita. Ma con alcune differenze tra loro.

L’ergastolo ordinario

Previsto dall’articolo 22 del codice penale, consente al condannato la possibilità di usufruire dei benefici previsti dalla legge, contemplando anche la possibilità di poter uscire dal carcere per potersi reinserire nella società, come auspicato dalla nostra carta costituzionale. Nello specifico, dopo i primi 10 anni in cella si possono chiedere dei permessi premio che permettono di trascorrere alcuni giorni all’esterno del carcere. Dopo 20 anni è possibile chiedere la semilibertà allo scopo, ad esempio, di lavorare durante il giorno fuori dal carcere per poi tornare e trascorrervi la notte. Dopo 26 anni, è consentito chiedere la liberazione condizionale, che consiste nella possibilità di concludere la pena all’esterno del carcere, in regime di libertà vigilata. Non si tratta però di concessioni automatiche che scattano una volta raggiunto il numero di anni necessari, la decisione spetta sempre agli organi competenti. Infine, l’ergastolano ha diritto a uno sconto di pena di 45 giorni ogni semestre di detenzione, se il dato comprova una buona condotta. L’ergastolo ordinario quindi non rappresenta necessariamente un “fine pena mai”.

L’ergastolo ostativo

L’ergastolo ostativo, invece, non prevede alcun beneficio penitenziario a meno che il detenuto non collabori con la giustizia. In parole semplici, chi viene condannato all’ergastolo ordinario non deve per forza collaborare per accedere ai benefici. È l’ergastolano ostativo che deve necessariamente farlo per ottenerli. O decide di collaborare o chiede la cosiddetta “collaborazione inesigibile”, cioè si mette a disposizione della Giustizia, ma senza avere più nulla da offrire alle inchieste, perché è passato molto tempo dai fatti, o perché tutto è già stato acclarato e i responsabili condannati. Ma in questo caso l’iter è lungo e tortuoso e la decisione spetta al tribunale di sorveglianza. Per questo l’ergastolo ostativo è un vero e proprio “fine pena mai” in quanto c’è davvero il rischio che il condannato non esca mai più dal penitenziario. Se una volta, quando non esistevano i computer, nel foglio matricola di ciascun ergastolano veniva scritto “mai” alla voce “fine pena”, adesso con la digitalizzazione degli uffici, bisogna inserire una data al posto di quel “mai” ed ecco che è stato deciso di usare il 31/12/9999, per indicare, appunto, che la pena non si sconterà mai. Una sorte di pena di morte “bianca”, come la definiscono alcuni. Ma anche in questo caso possono esserci delle eccezioni. Prima però è opportuno ripercorrere tutte le travagliate tappe dell’esistenza dell’ergastolo ostativo, dal 1992 ad oggi.

La travagliata vita di una legge discussa

Quando l’ergastolo ostativo venne introdotto, si disse che si trattava di una legge temporanea, nata per dare un segnale forte nella lotta alla criminalità organizzata e invogliare il reo a pentirsi e passare dalla parte dello Stato. Si disse anche che l’ostatività, così concepita, fosse anticostituzionale perché in contrasto con la Costituzione che invece ribadisce la necessità che la pena serva a rieducare chi ha sbagliato e a restituirlo alla società. Cosa di fatto impraticabile per un ergastolano ostativo, dato che la sua è una condanna a vita che si esaurirà con la morte, nel vero senso del termine. Chiaramente, una pena che non dia alcuna speranza di poter tornare in libertà non può avere alcuno scopo rieducativo, cioè non può facilitare il reinserimento sociale del detenuto. Il carattere perpetuo della pena pone dunque gravi problemi di compatibilità con l’articolo 27.3 della Costituzione secondo cui “le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una legge temporanea e incostituzionale che – però – dopo 30 anni è ancora in vigore. Perché?

Problemi di costituzionalità

I dubbi di legittimità costituzionale innescati dall’articolo 4 bis riguardano appunto il trattamento penitenziario previsto per i condannati all’ergastolo ostativo, esclusi dai benefici in mancanza di collaborazione con la giustizia. Un contrasto su cui si ragiona e ci si confronta da anni. Ma nonostante sentenze, pronunce e interventi da parte di ogni tipo di Corte ancora non si è arrivati a una conclusione. Si è sostenuto in giurisprudenza (Corte Cost. Sent. 9 aprile n. 135/2003) che la norma in questione non precluderebbe l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati all’ergastolo trattandosi di una “scelta del condannato” quella non di collaborare con la giustizia. Per questo motivo, la disciplina censurata non esclude in modo assoluto e definitivo il detenuto a pena perpetua dall’accesso al beneficio, e non si pone, quindi, in contrasto con l’articolo 27. Quello che non convincerebbe del ragionamento dalla Corte Costituzionale è che, nel trarre queste conclusioni, non pare aver tenuto conto che non sempre la collaborazione con la giustizia dimostra l’effettiva rottura del legame del reo con il sodalizio criminale né, viceversa, la mancata collaborazione è prova della persistenza di contatti con la criminalità organizzata. È del tutto plausibile che l’ergastolano non collabori per timore di ritorsione su di sé o sui suoi familiari o per evitare di aggravare la sua posizione processuale o, allo stesso tempo, non voglia accusare suoi familiari o amici, barattando la sua libertà con quella di altri. Ed è la stessa Corte Costituzionale che anni prima, nel 1993, con la sentenza n. 306 ha affermato che “dalla mancata collaborazione non può trarsi una valida presunzione… di mantenimento dei legami di solidarietà con l’organizzazione criminale”. Per questi motivi il contrasto con il principio di rieducazione del reo è netto e dunque molti ergastolani, pur non condividendo più il modus operandi delle organizzazioni criminali, restano in carcere.

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Il contrasto con la CEDU

L’articolo 4 bis non è in contrasto solo con la Costituzione, ma anche con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sulla base di questo articolo infatti la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nel giugno 2019, ha accolto il ricorso di un detenuto “ostativo” e ha sancito un concetto semplice: i giudici italiani devono valutare anche le eventuali richieste di permessi o di libertà condizionale degli ergastolani ostativi che non collaborano. E, se lo meritano, è giusto che anche loro, dopo ventisei anni di galera e una condotta impeccabile, ne usufruiscano, come accade ai detenuti che hanno avuto inflitto l’ergastolo semplice. Nessun automatismo concessivo, ma almeno la possibilità di valutare la persona. Insomma, per la Corte di Strasburgo, la legge italiana sull’ergastolo deve essere modificata. Contro questa pronuncia, lo Stato italiano ha fatto ricorso e nell’ottobre del 2019, la Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo lo ha respinto, confermando la sentenza precedente.

La pronuncia della Corte Costituzionale

Successivamente la Corte di Cassazione e il tribunale di sorveglianza di Perugia, hanno mandato alla Corte costituzionale documenti relativi alle richieste di permessi di due detenuti ostativi sollevando appunto dubbi di costituzionalità. E così, nel 2019, la Corte Costituzionale ha dichiarato formalmente incostituzionale l’art. 4 bis perché in contrasto con l’articolo 3 della CEDU e con l’articolo 27 della Costituzione, nella parte in cui non permette ai giudici di sorveglianza di valutare le richieste di benefici avanzate dai detenuti ostativi che non abbiano collaborato con la giustizia. Tradotto: la collaborazione con la giustizia non può essere per un ergastolano l’unica via per recuperare la libertà.

La decisione del legislatore

Il legislatore, dunque, è chiamato a intervenire. La Consulta aveva concesso un anno di tempo al Parlamento per modificare la legge e superare la questione di illegittimità. E, in effetti, la Camera la scorsa primavera ha approvato un decreto-legge che tiene conto delle indicazioni della Consulta. Prevede in sostanza che anche un ergastolano ostativo possa chiedere al tribunale di sorveglianza di accedere ai permessi, ai benefici che contemplano anche la libertà condizionale, ma a determinate condizioni. Devono essere trascorsi almeno trent’anni di reclusione, il detenuto deve essere effettivamente riabilitato, deve dimostrare di non avere più legami con la mafia, deve aver adempiuto agli obblighi civili o di riparazione pecuniariae deve dimostrare di aver assunto iniziative a favore delle vittime. Questo decreto-legge non ha fatto in tempo ad essere approvato anche dal Senato, e nel maggio scorso è stata chiesta una proroga. Proroga che la Corte costituzionale ha concesso fino all’8 novembre. Nel frattempo c’è stata la crisi di governo e se ne è formato uno nuovo.

Il decreto 162/2022

Il governo Meloni, per rispettare la scadenza imposta dalla Corte, è intervenuto sull’ergastolo ostativo. E così il primo-decreto legge del nuovo esecutivo, il 162/2022, è stato varato nel Consiglio dei ministri del 31 ottobre, “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di apportare modifiche alla disciplina prevista dall’articolo 4-bis, in ragione dei moniti rivolti dalla Corte costituzionale al legislatore per l’adozione di una nuova regolamentazione dell’istituto al fine di ricondurlo a conformità con la Costituzione”. Il testo dà seguito alla sollecitazione al Parlamento contenuta nell’ordinanza n. 97/2021 della Corte Costituzionale in merito ai benefìci penitenziari da concedere ai detenuti per gravi reati che non collaborino con la giustizia.

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Perché è intervenuto l’esecutivo?

La scelta di utilizzare questo provvedimento nasce dal fatto che l’8 novembre scorso era fissata l’udienza della Corte costituzionale in tema di ergastolo ostativo. La Corte, infatti, aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’istituto attraverso una ordinanza – che è atto non definitivo – in cui aveva previsto un tempo per il legislatore per intervenire e riformare l’ergastolo ostativo secondo le indicazioni dei giudici costituzionali ma in modo organico nell’ordinamento. La sentenza di incostituzionalità immediata, infatti, avrebbe cancellato la condizione esclusiva della collaborazione, permettendo quindi l’accesso degli ergastolani ai benefici senza alcuna gradazione. Il Parlamento della precedente legislatura, nonostante una proroga concessa dalla corte in estate, non è comunque riuscito ad approvare la riforma dell’ergastolo ostativo. Per questo il governo Meloni è intervenuto con la misura del decreto legge, di fatto recependo la legge approvata solo dalla Camera.

La decisione della Consulta

E così l’8 novembre scorso la Corte costituzionale si è pronunciata ritenendo che in effetti, “le nuove disposizioni trasformano da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici ai condannati per i reati ostativi che non collaborano con la giustizia”. In sostanza la Corte costituzionale riconosce che con questo decreto ora anche i non collaboranti possono accedere ai benefici, ma sottolinea come vi siano nuove, stringenti e concomitanti condizioni. E ha restituito gli atti alla Cassazione che adesso dovrà verificare gli effetti della nuova normativa. Alla luce del fatto che il decreto legge dovrà essere convertito in 60 giorni, la Corte ha scelto la via della restituzione degli atti al giudice a quo, così che possa valutare se la questione di costituzionalità sia ancora non manifestamente infondata, anche in virtù della nuova normativa. Se la Cassazione confermerà i dubbi di costituzionalità anche sul nuovo testo – nel frattempo probabilmente convertito – la Consulta verrà nuovamente investita della questione e potrà intervenire nuovamente. Alla luce di questa decisione, c’è chi parla di scelta pilatesca della Consulta. Chi invece riconosce che è stato abbattuto l’aspetto incostituzionale della legge sull’ostatività. E chi ritiene che violi ancora la Costituzione e i principi della corte europea dei diritti dell’uomo. E c’è perfino chi sostiene che si tratta di una riforma perfino peggiorativa per i detenuti ostativi. Le motivazioni della sentenza della Consulta non sono state ancora pubblicate. Non possiamo neanche sapere cosa deciderà in seguito la Cassazione e dunque cosa succederà ancora a questa intricata legge. Quel che è certo è che ci sono quasi mille e trecento persone condannate all’ergastolo ostativo nelle nostre carceri.

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